Vertigo | In fondo al pozzo
- rivistagelo
- 23 giu
- Tempo di lettura: 10 min
A cura di Laura Scaramozzino
Vertigo è una rubrica dedicata ai racconti brevi che esplorano l’abisso. Paura e attrazione verso l’abisso, inteso in senso metaforico e non, rappresentano l’approccio più adatto a una narrazione che vuol essere per sua natura ambigua, liminare, al confine tra il bordo e il precipizio. Che cosa ci terrorizza, ma al tempo stesso, ci attrae? Perché, pur avendo paura del buio, desideriamo esplorarlo e addentrarci nell’oscurità?
Racconti noir, perturbanti, weird, horror o surreali troveranno in questo spazio la collocazione ideale, soprattutto qualora facciano dell’esperienza del confine, e del limite, la propria vocazione. Stare sul bordo dell’abisso, fare esperienza della vertigine, vuol dire questo: fuga e attrazione. Desiderio di cadere, ma anche terrore.
Testo di Francesco Corigliano
Illustrazione di Umberto Tonella
Editing a cura di Laura Scaramozzino
Lui ti ha detto che ha capito. Che quello che c’era tra voi non c’entra niente. Che è soltanto una questione di lavoro.È per questo che sei con lui davanti all’ingresso dello scavo. C’è ancora la luce del sole, ma tutti sono già andati via. È estate e il profumo dei fiori e della campagna brulla si mescola all’umidità in una melassa densa. Tu non vorresti essere con Paolo. Lo sai. «Non ci metteremo molto. Dobbiamo solo arrivare in fondo».Ha con sé una pala e una lunga asse di legno.«A che ti servono quelle?» chiedi. «Cos’è quel pezzo di legno? »«Vedrai. Ti sei fidata sempre di me. Fidati ancora».Tu non ti sei mai fidata di lui. Non quando l’hai conosciuto in università, non quando avete iniziato a frequentarvi. E neanche quando avete preso parte insieme alla spedizione del professore. Questo scavo sperduto tra i colli non è andato come speravi. Né professionalmente né personalmente. Ti dicevi che era il nervosismo a far alzare la voce di Paolo, ad accendergli quella luce strana negliocchi. A rendere troppo stretti i suoi abbracci. L’ansia da prestazione. Il desiderio di fare bella figura. Ma poi hai deciso che non era così. Perché stargli vicino ti dava una strana sensazione. Freddo. Energia elettrica. Gli hai detto che dovevate chiudere e restare solo amici. Lo hai visto fissarti, diventare pallido. Ma lo hai sentito dire: «va bene».«Andiamo. Ho già acceso le luci del primo livello».Entra nella grande tenda di cerata blu. Il terreno, nonostante il caldo della giornata, è umido e morbido. Il cancelletto della recinzione è aperto, e la scala è già al suo posto per scendere nel pozzo. Il pozzo non ti piace. Quando hai deciso di studiare archeologia, eri innamorata del mistero. Dell’ignoto. Per te scavare significava intensificare quel senso di scoperta e di svelamento delle cose. Anche dissipare un mistero, scoprire la verità, per te è sempre stato l’inizio di altre avventure. Niente ti ha mai intimorito.Questo pozzo, però, è diverso. Il suo senso di mistero sa di chiusura. Di fine. Forse è lo sguardo allarmato del professore quando ne parla. Forse sono le leggende su questo posto. I miti di un popolo dell’età del bronzo ormai perduto. Qualche accenno a una variante della storia di Orfeo, distorta da infinite trascrizioni. Forse sono i mattoni neri disposti in circolo, un diametro di sette metri che più che una porta per il mondo di sotto sembra un imbuto, un cancello a senso unico.«Vado avanti io. Attenzione alle scale, si scivola».«Lo so che si scivola. Ci sono scesa già stamattina per i rilievi sul settore B».«Certo. Il settore B. Il primo piano è quello più tranquillo».Incassi senza rispondere. Paolo lavora al piano più in fondo. L’unico, a parte il professore. Ed è anche l’unico a dire che bisogna rimuovere la terra attorno all’ultima botola e aprirla. «Forse dovresti spiegarmelo e basta, Paolo. A quest’ora sarà tutto chiuso».Lui sta già scendendo. Le mani forti e scure ben agganciate ai pioli della scala. Quelle mani ti piacevano. Ne puoi sentire ancora il tocco caldo sui fianchi. Polpastrelli che nelle ultime notti si facevano troppo appuntiti, dolorosi. Un convulso moto di repulsione.«Erica. Ho trovato una cosa. Voglio che sia tu a vederla. È una scoperta senza precedenti».«Perché devo vederla io? Il professore lo sa? »Sorride. In quel modo presuntuoso e artefatto. L'arroganza di quest'uomo continua a stupirti. Lo guardi dall’alto e in questo spazio ristretto sembra più grande, la statua di un dio senza nome dentro una chiesa depredata e abbandonata. Scendi anche tu lungo la scala. La camera circolare è illuminata dai riflettori, i cavi si intrecciano per terra come serpenti in amore. Sei metri sottoterra. L’aria più pesante, con un tanfo di chiuso. Paolo indica la fessura circolare sul muro, piena di terra e detriti. «Hai fatto i rilievi su quella, vero?»«Sì. Le misurazioni erano sbagliate».«Che ne pensi?»«Che avrebbero dovute farle meglio».«Sai che cosa intendo».Tu sai cosa intende. Ne avete parlato molto. A che servono quelle fessure circolari in un pozzo? Ce ne sono otto in tutta l’altezza della struttura. Nessuno ha ancora stabilito la loro funzione. Per te sono aggiunte successive. Per Paolo sono il segno che quello non è un pozzo.“Stavolta vai avanti tu. Accendo le luci”. Indica la scala del secondo livello. Esiti un attimo. Non vuoi andarci veramente. Vuoi uscire, tornare all'albergo, magari bere con i colleghi. Non vuoi davvero stare con lui.Ma il suo sguardo è lucido e il suo tono cortese, dolce. Non credi che in fondo al pozzo ci sia davvero qualcosa. Ti avvicini alla scala a pioli, metti il piede sul primo gradino e scendi.Sei giù di un metro. Due metri. È ancora buio attorno. Per un istante pensi che non voglia accendere la luce. Anzi. Che ora metterà qualcosa sul buco e ti chiuderà dentro la tenebra. A soffocare mentre urli. Come l’ultima notte che siete stati abbracciati ed era tutto buio e lui non la smetteva di stringere. Fai per aprire la bocca quando i fari si accendono di colpo. Abbagliante. Ovunque. Sulle pareti di pietra nera non c'è un singolo centimetro quadrato sul quale venga proiettata la tua ombra. Ti schermi gli occhi e scendi fino al livello di terra battuta. Lui arriva poco dopo, la pala e l’asse di legno ben strette al petto.«L’asse. A cosa ti serve?» «Avevo una mia teoria. Te ne avevo parlato quando ancora mi volevi con te».«Non mi sembra».«Sì sì” e annuisce vigorosamente, andando ad accendere le luci del terzo piano. “Mi sembrava che mi ascoltassi. Mi sembravi l'unica in grado di ascoltare veramente».«Siamo qui per questo? Per scoprire quanto io sia disposta ad ascoltarti?»Scuote la testa, ma continua a sorridere. Accenna verso l’apertura tonda, un occhio di pietra traboccante di terra. “So che la pensi come il professore. Ma nessuno avrebbe scavato dei canali laterali a questa profondità. E per cosa, poi?»«Per convogliare le acque nel pozzo».«E dove sono le tracce d'erosione dell'acqua? Dove sono il resto dei canali?»Fai per rispondere, ma lui ha già agguantato la scala e sta scendendo al terzo piano. Ti affacci sulla botola, lo vedi strisciare nella luce dei riflettori, sempre più in basso, come un campione calato in una provetta.«Me ne vado».«Certo, vattene. Non è la prima volta».«Non c’è niente in fondo al pozzo. Nessun mistero».«Infatti».«Non sai cosa vuoi».«Io lo so. Sei tu che vuoi sapere cosa voglio io».Forse potresti essere tu a chiudere le luci. Aspettare che scenda, tirare su la scala e spegnere tutto. Abbandonarlo lì, abbandonarlo davvero. Il fondo del pozzo è umido e caldo e quella puzza acre che sembra permeare la stessa pietra cola lungo la pelle come una pioggia acida. Il buio è a malapena respinto dai fari. Ti chini e scendi la scala. Lui sorride guardandoti arrivare sul fondo di terra del terzo piano. Qui il pavimento è inclinato e friabile. Cammini con attenzione. Quelli non sono veri pavimenti, ma ammassi di detriti compattati lungo sottili cornici di pietra che corrono sulla circonferenza del pozzo. Non sono vere camere con un pavimento. Questo era un unico cilindro affondato nel sottosuolo. È un pozzo, è per forza un pozzo. Che altro?Paolo ti aspetta accanto alla scala, e quando scendi gli urti il petto. Lui non si sposta. Tu ti ritrai, d’istinto. I suoi occhi riflettono le luci di tutte le lampadine. Brillano come ammassi di stelle, stelle morte che ti fissano dai parsec gelidi degli abissi siderali.«Puoi sempre andartene».«Dovrò pur raccontare qualcosa agli altri quando tornerò su».«Se tornerai su». Mentre parla ti fissa. Studia l'effetto delle sue parole sul tuo stomaco, sulle tue ossa che si fanno d’improvviso cave. Tu sostieni il suo sguardo, anche se senti il labbro trema. Hai fatto tanto per mandarlo via. Hai fatto tanto per te stessa e per il tuo futuro. Sei sotto decine di metri di oscurità e la scala scintilla come una stella cometa.Lui non dice nulla, accende le luci del piano di sotto. Scende. Aspetti che sia giù. Poi corri alla scala per risalire. Afferri i pioli, arrampicandoti veloce. L'unico suono è quello del tuo fiato ansante. Chissà cosa sentiva Orfeo alle sue spalle quando sfuggiva al Tartaro. Poi la sua voce echeggia come dentro un tunnel, un tunnel rivolto ai cieli o agli inferi. “Va bene. Scappa. Ci sono abituato”.Ti fermi. Ora il vuoto nelle ossa si riempie di fuoco. Di magma incandescente. Forse quell'asse di legno serve perché tu l'afferri e gli sfasci la testa. Per ficcargli le schegge negli occhi. Guardi la fessura tonda e per un attimo ti sembra di vedere qualcosa, in quella terra nera e traboccante. Paesaggi desolati di morte e consunzione. Di rovina e abbandono. Sei così?Scendi la scala, raggiungi quella per il quarto piano e vai giù. Lui sta scendendo al quinto. Lo segui, livello per livello, davanti a quelle aperture tonde, nella tenebra. Sei scesa così in basso poche volte. Nel pozzo, una sola. Ti ha fatto paura. Una paura vibrante, ancestrale, che ti ha preso i fianchi e i polmoni. Un senso di violazione, di proibito. Storie di Orfeo come maschere per nascondere un orrore senza nome. Ora la gola si secca e mentre una furia pulsante ti fa stringere i pugni, tocchi terra al sesto livello.Lui ha poggiato l'asse e si è messo al lavoro. Con la pala smuove la terra. Non è compattata dal tempo e dal peso dei secoli. È stata scavata di fresco. Riposizionata per ingannare gli altri.«Hai già aperto la botola».«Ho già aperto la botola. E voglio condividere con te quello che ho trovato».«Io non voglio condividere niente con te. Non più».Ti guarda. Oh, come ti guarda? In quegli occhi c’è un fuoco nero. Un fuoco che danza in questa luce elettrica così insulsa nel ventre della terra. In quelle fiamme di tenebra arde un pensiero che avvolge, trascina, riduce in brandelli. E forse anche qualcos’altro. Un mistero. Un mistero vero.«Dimmi che non vuoi. E mi fermerò. Basta che tu me lo dica».Non rispondi. Non vuoi privarti di questa scoperta. Solo l’ultima con lui.«Erica».«Apri».Annuisce. Ti sorride, e la penombra del pozzo gli sprofonda nelle rughe, le allarga, trasforma il suo volto in una maschera rinvenuta sotto chilometri di fango e ghiaia. L’umidità si fa asfissiante. Paolo ficca la pala nella fessura della botola e la spalanca di colpo.All’inizio non è l’odore. È un senso di ansito trattenuto. Di vita sospesa. Come quello che provavi nella camera di nonna quando lei era appena uscita per andare al mercato. La percezione nella cuccia del cane vuota e calda. Una tazzina fumante poggiata in cucina.C’è la vita che brulica in quel quadrato nero. Il fremere di un’attesa, di una moltitudine di reazioni organiche, di trasmissioni nervose.Poi è anche l’odore. L’odore che ti travolge, che ti annichilisce. Fiato marcio. Alito pesante di gengive ammuffite. Il tanfo acido, lercio che galleggia attorno a bocche masticanti e oziose.«Cristo. Che cos’è?» dici coprendoti la bocca.Lui ti guarda. Una smorfia di disgusto sul volto. «La mia scoperta. La nostra. Vieni».

«Paolo».«Erica. Un'ultima esperienza. Un'occhiata in quel misterioso futuro che non avremo mai».Non rispondi. Lui tira fuori una scala di corda nascosta dietro uno dei riflettori. La cala nell'abisso. Continuando a tenere la sua pala di legno, scende nella tenebra. Laggiù non ci sono fari. Lì l'unica luce sarà quella che ti riuscirai a ricordare, a evocare contro il buio attorno. Contro il suo buio. Un buio che conosci. Vero?Tremi. Controllando gli scossoni di repulsione del tuo stesso corpo, ti avvicini e inizi a scendere. Ti chiedi se sia davvero il fondo del pozzo. Se non ci sia altro.Sei ancora appesa alla scala quando lo vedi. Ha una torcia tascabile agganciata alla giacca. Sta sistemando la sua asse di legno in una fessura. Una fessura di pietra nel muro, nella quale la tavola si incastra perfettamente. L'aria è satura di un puzzo indicibile, appiccicoso, che si incolla alla gola e scende nello stomaco per rivoltarlo. Non riesci a vedere il pavimento, ma ci deve essere, perché Paolo è in piedi e armeggia frenetico. Ha appena finito di sistemare l’asse quando finalmente tocchi terra. È morbida. Molto morbida. Soffice come un cuscino. Stai in piedi con difficoltà, tenendo l'equilibrio a malapena. Se ti muovi ti senti affondare per qualche centimetro. La superficie è umida, scivolosa. Fai qualche passo verso Paolo e il pavimento improvvisamente si taglia. Una lunga fessura che spacca a metà tutto il pozzo, una rientranza morbida, carnosa. La testa ti gira. il cuore non ascolta le ragioni tiepide della mente e del rimorso.«Paolo» mormori.«Grazie». Si volta verso di te. È raggiante, il volto pieno di gratitudine. «Grazie, Erica».«Che cos'è quel pezzo di legno? »«Le fessure. Sai. Pensavo che questo non fosse un pozzo. Pensavo che fosse una torre e che quelle fossero finestre».Una torre sottoterra. Una torre per risalire dagli inferi sino in superficie.«Finestre di un'epoca remota. Quando il terreno era molto più basso. Poi nel corso dei millenni la rovina è stata seppellita. Ha senso, no?»Il pavimento si muove. Una scossa di gelida energia elettrica ti scuote la schiena. Annaspi. Arretri verso la scala. Ma Paolo ti abbraccia e ti tiene stretta. Una morsa familiare e dura. Cerchi di divincolarti. Non riesci a parlare. Ti manca l'aria. Vedi solo il suo viso, male, in penombra, la torcia che gli sbatte contro il petto.«Ma poi ci ho pensato. Non aveva senso».Il pavimento si sta aprendo. La fessura si dischiude. Un fiato caldo e d'un fetore ribollente esala come un geyser. E poi il risucchio, l'aria fresca della superficie che scende come una cascata improvvisa dai piani superiori. Si infila nella spaccatura. Un’espirazione.«Questo non è un pozzo e non è una torre. E quelle non sono finestre. L'ho capito quando sono sceso qui da solo. Volevo impiccarmi, sai. Farmi trovare da voi. Da te. Ma sono io che ho trovato la rivelazione. Me lo hanno detto le labbra. Quell'asse di legno l'ho fatta io. Ho preso le misure. Dovrebbe andare bene. È un'ancia».«Paolo» dici, è con dolore sarà l'ultima parola che pronuncerai.«Per noi Orfeo suonava la lira. Ma conosce anche altri strumenti. Ora grazie a noi, dopo milioni di anni tornerà a suonare».Spalanchi la bocca. Le gigantesche labbra sotto i tuoi piedi, invece, si stringono. E poi soffiano. Non è tanto il suono. La sua esplosione, la cacofonica rottura dell'aria. Non è tanto l'intuizione di un accenno di melodia, dell'inizio di una canzone di morte e abissi e vita di tenebra in compagnia di vermi giganteschi e in caverne ciclopiche. Non è neanche il fiato incandescente che ti strappa ruvido via la pelle, le carni. Non è la vita che sparisce in un lampo a restare per un istante sospesa nell'ultima reazione dei tuoi neuroni. È la stretta di Paolo. la stretta che si disfa insieme a te, in polvere, ma che non ti lascia neanche in questa tenebra infinita.
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