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Vertigo | L'ora di biologia


 

A cura di Laura Scaramozzino

 


Vertigo è una rubrica dedicata ai racconti brevi che esplorano l’abisso. Paura e attrazione verso l’abisso, inteso in senso metaforico e non, rappresentano l’approccio più adatto a una narrazione che vuol essere per sua natura ambigua, liminare, al confine tra il bordo e il precipizio. Che cosa ci terrorizza, ma al tempo stesso, ci attrae? Perché, pur avendo paura del buio, desideriamo esplorarlo e addentrarci nell’oscurità?

Racconti noir, perturbanti, weird, horror o surreali troveranno in questo spazio la collocazione ideale, soprattutto qualora facciano dell’esperienza del confine, e del limite, la propria vocazione. Stare sul bordo dell’abisso, fare esperienza della vertigine, vuol dire questo: fuga e attrazione. Desiderio di cadere, ma anche terrore.



 

Testo di Niccolò Ratto

Illustrazione di Veronica Villa

 


Suole bagnate di autunno, stridio di gomme e foglie marce, ormoni inscatolati.

«Non mi sento bb…bene…» balbetta Francesco più verde di un limone muffito.

Ha la mano alla bocca e un conato di vomito gli fa saltellare gli occhiali tondi sulla punta del naso.

«Non provarci!» intima Diego con un’occhiataccia.

TSZZZZ… brusii al neon, bagliori di silicio, l’adolescenza elettronica imprigionata in un polveroso seminterrato affollato di ricordi, buone intenzioni e promesse non mantenute. Ma anche scatoloni sfiancati, giocattoli, attrezzi da lavoro e un’orribile cyclette rosa.

«Lascialo perdere…» s’intromette Alberto studiando l’inquadratura migliore sull’iPhone ultimo grido scotennato ai genitori per il tredicesimo compleanno. «Già tanto se non se l’è fatta addosso».

«A proposito…» interviene Maurizio, chiamato Tacchino ― anche se nessuno si ricorda perché ― tirando fuori dallo zaino Eastpack un paio di guanti in lattice. «Cos’è questa puzza di merda?»

Qualche risata, cigolio di cardini, il vento che sibila sottile tra le rinsecchite guarnizioni di una minuscola finestrella a vasistas.

SBAM! Diego sobbalza sollevando lo sguardo verso l’ingresso. La porta in cima alle scale è chiusa. Dev’essere stata la corrente a farla sbattere.

Francesco sbianca e, come tutti si aspettavano, completa il disastro: tossisce sparando dal naso due rivoli giallastri schifosi, mastice alieno; le narici bruciano, sapore di bile e Oreo alla vaniglia giù in fondo alla gola. Che faccia da nabbo!

«Bleaahhh» ululano in coro le gemelline dal ciuffo rosso, Alessia e Silvia, magliette uguali del concerto dei Maneskin, quelle dell’ultimo Tour, nere con al centro labbrone rosse plasticose, ma senza la lingua fuori dei Rolling Stones. Per distinguerle basta guardar loro le scarpe: Vans Old Skool granata per Alessia, ― che dicono abbia anche le tette più grandi ― stivaletti Dr. Martens con cucitura gialla per Silvia, più raffinata e meno sportiva della sorella. A oggi non ha all’attivo neanche un pompino.

Sghignazzi a scoppio rimbalzano come proiettili di caucciù contro grigie pareti di cemento armato per poi disperdersi nel vecchio sistema d’aerazione che ha assaggiato di tutto. Fuori intanto ha smesso di piovere e una chiazza umida fa da ombelico al soffitto, sgocciolando a terra salamoia appiccicosa.

TICK, TICK, TICK…

«Te l’avevo detto Fra. Era meglio se oggi stavi a casa» ride Maurizio sfoggiando il suo ghigno di titanio, ancora un mese e potrà dire finalmente addio a quella mostruosità voluta dall’ortodontista: presto il piccolo squalo diventerà uomo.

Le gemelle, spirito da crocerossine e mutandine Victoria Secret, gli sfilano alle spalle a naso all’insù ― stronzo ― per occuparsi di Francesco Cacasotto che, rosso come un peperone dopo aver sboccato, sta riprendendo a respirare.

SHHHHHH! Zitti un attimo, cazzo!

Diego, lineamenti alla Cate Blanchett e carisma alla De Niro appena sbarcato a Ellis Island, ― girano storie su un serramanico da gangster, che nasconde insieme all’eyeliner nella trousse viola rubata alla sorella ― allarga le braccia fissando in cagnesco il resto della compagnia.

Rumore di passi, vociare distorto, sguardi muti. Forse il corriere Amazon o magari quei cretini dei vicini. I loro figli ― due marmocchi di sette e nove anni ― s’intrufolano sempre nel cortile che dà sul retro. Papà è andato più volte a lamentarsi da quegli hipster del cazzo: «Se li becco un’altra volta a gironzolare nella mia proprietà, giuro che sparo!»

De Niro ― fronte sudata e orecchio da pellirosse ben teso ― contempla anche il minimo scricchiolio. Se i suoi genitori sono rientrati a casa, allora sì che saranno cazzi amari. Una manciata di secondi e anche l’ultimo sorriso scompare dai volti di quella combriccola di ragazzini costretta a sopravvivere in osmosi con la Rete. Il gioco sta per andare a puttane? No, allarme rientrato, fa segno il bravo ragazzo passandosi il dorso della mano sulla fronte.

Un bagliore dorato rosicchia la paura, un raggio di sole affila gli artigli contro i vetri appannati dello scantinato.

«Via libera…» ordina alla fine Diego e con forza strappa i guanti dalle mani di Tacchino.

In religioso silenzio si stringono intorno al piccolo cadavere; immobile sotto la luce fredda dei neon: gli occhi spenti, le mucose livide, il derma ancora lucido e rosato.

Alberto continua a filmare, gli occhi puntati sul gorilla glass dello smartphone.

«Sembra finto» borbotta simulando una rapida carrellata.

Malgrado quella del video sia una pessima idea, Diego sta zitto, non ha più voglia di litigare con quel pervertito. Qualche mese prima lo avevano beccato nei bagni delle femmine intento a riprendere due ragazze più grandi che si ficcavano la lingua in bocca. La sua però non era una cosa sessuale, non come la intendono le persone normali. Fare video era la sua unica passione, e pur di appagarla sarebbe stato capace di riprendere anche suo nonno al cesso con le pagine di sudoku incollate alle ginocchia. Psicopatico! 

«Su Netflix sono più veri!» interviene Maurizio, la bocca storta in una stupida smorfia.

«Forse è un problema d’illuminazione» risponde Alberto pensieroso, sollevando gli occhi verso il soffitto.

Un leggero sfarfallio all’interno della plafoniera, là sopra, e il morto sembra cambiare posizione.

«L’avete vvvv…visto anche voi?» boccheggia Francesco indietreggiando quel tanto da calpestare i piedi alle gemelle, sempre attaccate quasi condividessero anche i polmoni.

Uno spintone da parte di Alessia e un fanculo dalla sorella raffinata che non si sporca mai le mani.

Quando lo succhierà, compiuti almeno sedici anni, lo pulirà prima col gel. Rimugina Diego continuando a fissarla.

«Visto cosa?» chiede quello senza voltarsi.

«La f…ffaccia» insiste Francesco con un’espressione di puro terrore, continuando a dondolare da una gamba all’altra.

«Se non la smetti, tra un po’ tocca a me vomitare!» sbraita Alessia colpendolo alla testa con un ceffone, controllandosi poi le unghie.

Francesco s’irrigidisce, trattiene il respiro come gli ha insegnato la psicologa quando gli attacchi di panico stanno per fregarlo ― guarda la prua della nave, concentrati su quella, escludi tutto il resto ― e strabuzza gli occhi.

«Ehi quattrocchi…» ridacchia Maurizio il Tacchino. «Quante dita sono queste?» Il pugno chiuso e il dito medio ben in vista.

Facendo attenzione a non scomporre la pettinatura beat che le nasconde le orecchie a sventola, Silvia scoppia a ridere. Paonazza, singhiozza come uno di quei vecchi motori a due tempi ingolfati dal freddo. 

«Spegnetela, vi prego» sbotta Alberto maledicendola, senza però mai staccare gli occhi dallo schermo. «Così rovina tutto!»

«Lo giuro, dovete ccc…crederm…mm…» piagnucola Francesco. Voce rotta e sguardo spento.  

SHHHHHHHHHHH! Diego li zittisce ancora. Spazientito, avanza di qualche metro, abbassa il cappuccio della felpa sulle spalle e con aria severa squadra il corpicino esanime.

Per qualche secondo tutti trattengono il fiato.

«Sicuri sia morto?» chiede Alessia stringendo la mano della sorella.

Diego avvicina il palmo al naso della vittima.

«Non respira» conferma infilandosi i guanti.

Con la calma di un esperto anatomopatologo gli ruota intorno concentrandosi sui dettagli. Costellazioni di petecchie sugli zigomi, occhi bollati, unghie spezzate, lividi intorno al collo. Il labbro inferiore tagliato, forse un morso. Oppure un colpo durante la lotta. Sei contro uno; ti abbiamo davvero conciato per le feste.

«Sicuro?» squittisce Silvia.

«Non c’è polso» risponde Tacchino facendo ricadere il braccio della vittima.

«E tu che cazzo ne sai?» torna a farsi sotto Alessia, piegandosi in avanti col suo ciuffo rosso, forse solo perché nessuno si è ancora accorto del recente cambio di tinta: da amaranto a rosso.

«Mio padre è medico!» prosegue stizzito Maurizio.

«E allora?» replica lei con aria altezzosa. «Nostra madre è ingegnere informatico».

«Il bello è che noi non sappiamo neanche accendere un pc» conclude Silvia.

Diego odia quando quella cerca di darsi un tono e apparire diversa dalle altre stupide ragazzine col cervello photoshoppato e il fidanzato che le tradisce con l’intelligenza artificiale.

«Raga» sbuffa Alberto Iphone, allontanandosi dal gruppo per cambiare punto di vista.

L’androgino leader si gira di scatto, zittendoli tutti. Le mani scivolano veloci sul corpo rigido, spogliandolo dei vestiti. Poi con voce decisa si rivolge al suo assistente: «Bisturi!»

Tacchino apre un astuccio di pelle nera, pregando che suo padre non si sia accorto del furto, e gli passa lo strumento.

De Niro sorride mentre la lama affonda nei tessuti; prima un taglio orizzontale alla gola, poi uno al basso ventre. S’inumidisce le labbra con la lingua e un impercettibile tremore gli accarezza l’esofago sino a esplodere in un gemito di piacere. Ha un torpore al glande, pizzicori all’uretra come mille ballerine del Moulin Rouge, quelle di cui blatera sempre suo padre quando beve troppo.

«L’appetito vien mangiando» dice il boss coi lineamenti d’angelo espirando lentamente, prima di procedere con la terza incisione verticale.

Così aveva fatto il professore Gaglioli dissezionando una rana durante l’ora di biologia.

«Non ccc…ce la facc…cccio…» balbetta Francesco il Cacasotto, sbattendo contro un compressore d’aria trifase da 3,5 KW.

Per un attimo De Niro solleva la testa, annusa la paura e gli piace quell’odore. Sembra varecchina, gli ricorda le mani di sua zia, la tabaccaia.

«Vuoi fare la sua stessa fine?» minaccia puntandogli contro il bisturi sporco di sangue.

Le gemelle afferrano Cacasotto per le braccia, con sguardi da cattive naziste, proprio come nei fumetti di Spiegelman.

«Llll…lascia…»

«Zitto!» sussurra Maurizio Tacchino stringendogli la gola tra i pollici. «Non volevi fare parte del gruppo?» 

Alberto esegue un elegante piano sequenza passando dal volto bluastro del cadavere a quello di Francesco. Già s’immagina i tagli, le dissolvenze in fase di montaggio e l’ultima hit dei $UICIDEBOY$ come colonna sonora.

Scricchiolio di denti e respiro affannoso.

«Lo dicevo che non eri pronto». Diego il capotribù con l’eyeliner è impassibile, e le sillabe fluiscono come melassa su un letto di carne avariata. «Neanche lui lo era!»

Il bisturi torna a immergersi in un groviglio di tessuti molli mentre un fremito d’eccitazione accende il giovane facendogli tremare la mano. 




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