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VERTIGO | Perdix


 

A cura di Laura Scaramozzino

 


Vertigo è una rubrica dedicata ai racconti brevi che esplorano l’abisso. Paura e attrazione verso l’abisso, inteso in senso metaforico e non, rappresentano l’approccio più adatto a una narrazione che vuol essere per sua natura ambigua, liminare, al confine tra il bordo e il precipizio. Che cosa ci terrorizza, ma al tempo stesso, ci attrae? Perché, pur avendo paura del buio, desideriamo esplorarlo e addentrarci nell’oscurità?

Racconti noir, perturbanti, weird, horror o surreali troveranno in questo spazio la collocazione ideale, soprattutto qualora facciano dell’esperienza del confine, e del limite, la propria vocazione. Stare sul bordo dell’abisso, fare esperienza della vertigine, vuol dire questo: fuga e attrazione. Desiderio di cadere, ma anche terrore.



 

Testo di Alessandro Cellamare

Illustrazione di Sergio Kolisiak

 


In piedi, al centro del soggiorno, Jeff sembrava una parete di mattoni. II suo pugno faceva male.

«Ma che diavolo ha ancora da ridere?» si chiese a voce alta Mike, appoggiato su un grosso bidone d’acciaio trasformato in una seduta di design. Tamburellò le dita sul metallo e sentì che dentro era vuoto. Si voltò verso l’uomo legato. «Ti diverte la cosa, vecchio bastardo? Te la bruciamo la casa e ti ci lasciamo dentro». Fece un cenno all’amico: «Tiragliene un altro, Jeff, ma stavolta dritto sotto il naso».

Un fiotto di sangue, misto a saliva, rigò per lungo un bracciolo della poltrona. Alec era stretto da almeno dieci giri di corda e aveva lividi su tutto il volto, sporco di materia organica rappresa. L’uomo scrollò la testa. Un altro ghigno, seguito da due colpi di tosse.


Al mercato del pesce c’era un mucchio di gente e un tanfo insopportabile.

«Glielo pulisco, signora?» chiese la ragazza dietro al bancone. Reggeva lo scorfano a mezz’aria.

«Solo le interiora. Mi lasci pure la testa» le rispose una donna grassa e sorridente, oscillando sulle anche da bambolona snodata.

Sara si voltò, appoggiò il pesce sul ripiano e strinse le mani guantate di bianco sul grembiule blu. Accanto a lei, Deborah stava aprendo un merluzzo.

«È sabato, coraggio. Mancano solo due ore» le disse senza distogliere gli occhi dallo scorfano.

«Tu, il weekend puoi riposare» rispose sconsolata l’amica. «Ah, se tornassi indietro. Altro che famiglia. Quello stronzo di Peter. Per non parlare di quel farabutto di suo figlio, tale e quale al padre».

«Deborah» la interruppe.

«Dimmi, cara».

«Guarda qui». Strinse forte il coltello. Con la punta della lama indicò il ventre aperto dello scorfano.

«Ma che… accidenti è?»

«Chiediamo a Sam. Lui sa tutto. È alla cassa».

«Sam» gli urlò Deborah. L’uomo voltò il suo faccione. «Puoi venire un attimo?»

La ragazza puntò il pesce con la mano tenendosi a debita distanza, mentre il ragazzo si accostava per guardare meglio.

«Mai visto» concluse Sam. «Sarà qualcosa che ha ingoiato».

«Ma si muove. Guarda qui». Sara spinse il coltello contro la sacchetta molle. Una crepa si aprì e due minuscole ali si spiegarono attorno a un corpo esile. Un paio di centimetri appena. La creatura si librò in aria parandosi davanti ai tre. Ricordava un colibrì in miniatura. Slittò prima a destra, poi a sinistra, e ancora a destra, con la stessa rapidità delle libellule sui profili dei torrenti. Due minuscoli occhi rossi, simili a led luminosi, fissarono quelli azzurri di Sara, le pupille dilatate di Sam e lo sguardo perso di Deborah. Col becco mirò l’uomo un attimo prima di affondargli nell’orbita destra con la violenza di una pallottola, trafiggere bulbo e cranio e rispuntare dai capelli, poco sopra la nuca, imbrattato di materia grigia. Con qualche scatto si levò di dosso l’ingombro e fissò i clienti in coda per il pesce, volteggiando preciso da un bordo all’altro del bancone mentre, dietro di sé, l’uomo crollava come un sacco di pietre. Tra le urla, due occhietti gialli brillanti, arretrati su un piccolo becco aguzzo, si affacciavano fuori dal merluzzo sventrato, accanto allo scorfano; poco più in là, sul banco del pesce, un uccellino corazzato tirava via l’ultima zampa dal carapace infranto di un grosso granchio.





Mike accese il registratore.

«Ora il professore ci confessa tutto, Jeff» disse. «E poi ridiamo noi».

Alec sputò sul pavimento un grumo di qualcosa mentre tossiva. «Sai qual è il problema di voi fanatici dell’ambiente? La rabbia. È il rancore che vi rende ciechi».

«Evita di farci la paternale, paparino, o non ti alzerai più da quella poltrona di velluto, chiaro?»

«Allora vi conviene fare in fretta. In un caso o nell’altro». Rise. «Sciocchi. Voi e le vostre frange armate. Non avete idea di cosa avete innescato facendo esplodere le vasche di contenimento».

«È stato solo un segnale per dirvi che è inutile nascondersi perché noi sappiamo tutto, professore. Vi teniamo d’occhio da tempo. Dentro le vasche c’erano delfini, mante e altre razze in via d’estinzione» incalzò Mike. «Nessuna delle loro vite vale una sola delle vostre ricerche».

«Ricerche che vorrebbero tutti, voi per primi. Hai detto bene, Mike. In via d’estinzione. Posso chiamarti Mike, vero? Tanto ormai. Manca poco». Riprese a tossire violentemente.

«Jeff, aiuta il professore a sistemarsi su, ma non slegarlo. Non mi fido».

«Erano vasche da riproduzione. Facevamo studi su una sostanza capace di aumentare la fertilità e ripopolare i mari di quelle specie che inquinamento e bracconaggio stanno poco per volta sterminando. Eravamo riusciti a mettere a punto un composto denominato Germina, che ibridava la forza riproduttrice delle formiche legionarie africane con quella delle Perdix scandinave».

«Perdix?»

«Una pernice grigia».


Lungo le viuzze del mercato, costeggiate da furgoni ambulanti, il vento agitava le foglie tra i corpi a terra senza vita. Una donna grassa, riversa sotto il bancone del pesce, schiacciava col suo peso un bambino dagli occhi svuotati mentre le pale di un elicottero da ricognizione battevano regolari l’unico suono nel raggio di centinaia di metri.

Un gruppo di tralicci, simili a spilloni di legno, tracciava il profilo della spiaggia di Codega Bay. Tra di essi un cavo reggeva il peso di un uccellino ricoperto di placche, col becco rivolto a riva. Uno sciame gli si affiancò poco per volta lungo il filo, e nel mezzo di quel piccolo esercito volante cinguettò un sibilo metallico verso un’orca spiaggiata. Attorno al cadavere, i gabbiani schiamazzarono e presero il volo lasciando il posto all’orda di volatili, che si tuffò sul ventre pulsante del cetaceo picchiettando con forza.


«Allora non si lamenti, professore, e ci ringrazi. Pensavamo di esserci vendicati, ma, vista la sua età e quel che c’è dentro quella roba, beh… se ci racconta tutto la lasceremo in vita e si godrà gli ultimi anni sfornando bambini come una pernice» scoppiò a ridere Mike. Jeff lo seguì col ritardo dei dinosauri, a colpi di risata crescenti e profondi. Alec abbassò ancora una volta gli occhi fissando la siringa ai suoi piedi, il pistone spinto fino in fondo e l’ago macchiato del suo sangue.

«Abbiamo rilasciato Germina nelle vasche» continuò lo scienziato, «ma dopo le prime nascite le cose hanno preso una piega… poco chiara». Alzò lo sguardo verso gli aguzzini. «Ci eravamo tutelati chiudendo gli scambiatori d’acqua marina: in questo modo avevamo isolato perfettamente dal mare le vasche in cui era sciolta la sostanza. Finché non ci avete pensato voi, stupidi idioti».

«Non racconti balle, professore. I pesci liberati erano in perfetta forma».

«Non avevamo considerato gli effetti delle radiazioni solari. In laboratorio abbiamo un’illuminazione rigorosamente controllata per proteggere il siero. Un collega ha esposto casualmente un granchio reale, trattato con Germina, alla luce del sole e… dio del cielo, quelle... cose dentro...» Fissò i due uomini con gli occhi spalancati. «La sostanza adesso è nel mare» urlò, «e non c’è modo di ferm...» Versi di dolore anticiparono scosse epilettiche che sbalzarono da terra la poltrona di qualche centimetro. Jeff e Mike gli afferrarono la testa e fermarono braccia e gambe col peso del loro corpo.

«Si riprenda, professore» gli intimò Mike.

Un’ombra scivolò rapida dietro la tenda, fuori nel giardino.

«Ehi, amico» Jeff chiamò il compare. «Ho sentito un rumore. La porta».

Piccoli colpi tamburellavano all’ingresso, prima lenti, poi sempre più veloci e possenti.

Alec riprese lucidità. «Non li fermerete… Si cercano tra di loro...» strappò all’aria gli ultimi respiri. «Come le legionarie… come le...» Accasciò la testa.

Jeff sollevò la scrivania e la bloccò contro l’ingresso mentre un becco enorme si apriva un varco nella porta. Con denti aguzzi da orca strappava a morsi listelli di legno. I vetri della finestra si infransero lasciando entrare decine di minuscoli uccelli. Mike scoperchiò la seduta a forma di bidone e vi si serrò all’interno, osservando scampoli di realtà dai fori incisi per decorazione. Sentì le urla straziate di Jeff, e vide gli occhi della creatura che dall'interno sfondava il ventre di Alec; umani, dolci, di un nero profondo, stretti ai lati di un becco coriaceo irregolare, sformato in un ghigno permanente.

Qualche attimo dopo, un silenzio innaturale, rotto solo da un verso primitivo, animalesco.

Sentì il bidone trascinato, sollevarsi, rompere gli ultimi vetri della finestra, l’ovattato battere di possenti ali, la netta sensazione di volare, le nuvole, il sole. Poi leggero, libero, giù in picchiata, sempre più veloce, un tonfo assordante, il blu, l’acqua salata tra i denti e nella gola mentre dal fondo stormi di uccelli si aprivano la strada dal mare verso il cielo, rapidi e ordinati.

Come farebbe un esercito o una squadra di aerei da caccia.

O come fanno certe formiche in alcune zone dell’Africa.

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