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Racconti | Forever Chemicals


 


 

Testo di Ilaria Padovan

Illustrazione di Stefano Togni


 

 



 

Invece, vedi quanti, qui,

piuttosto scelgono le squame.

(La città indelebile, L. Lim)

 

 

// E Dio si fece topo. Primo giorno.

 

Si vedeva. Ce l’aveva scritto addosso. Pure col caldo che lo consumava tramutandolo in fontana.

Peccato l’acqua, qui, sia tutta avvelenata. 

Qi-kkhom An, appena sceso alla stazione, sfontanava una condanna.

Con quelli così, bisogna tenere pietà: farli a pezzi con i denti, come treni sopra i corpi, però, partendo dalla testa, masticandogli via gli occhi.

Si vedeva: Qi-kkhom An era uno di quelli che moriva in questa storia. Eppure, volevo vedere fino a dove si arrivava: tenergli le unghie dentro i polsi per sentire se crepava tremando oppure calmo.

 

Qui da noi, tutto è passo falso se passi per la strada.

La strada se la sono presa i topi, appena hanno smesso di scappare. Le strade, tutte ostaggi degli scarafaggi che dilaniano anche i topi che, tanto, moriranno.

Ma, se non passi per la strada, quel che resta sono i tunnel: radici, ma al contrario, a disarticolare una terra che non tiene.

Tunnelabirinto: per sbranare avventori e naviganti.

Abbiamo sempre fame/

siamo sempre tanti.

Non importa se Dio s’è fatto topo, né quante malattie. Non ci fanno niente gli invasori. Gli scarafaggi, al massimo, ci fanno a pezzettini: rimaniamo sempre tanti.

E dobbiamo pur mangiare.

Qi-kkhom An sarebbe morto subito e sudato. Che schifo morire così. Persino per uno come lui: che schifo crepare sfontanante.

 

 

 

// Tutto questo niente sarà tuo. Secondo giorno.

 

Non credo di poter riavere la mia terra.

Mi guarda Qi-kkhom An e non capisce.

Penso che a mangiarlo sono ancora in tempo. A finirle, le cose, poi, c’è sempre tempo. Allora, al posto di mangiarlo, respiro ancora e, invece, spiego.

Non credo di poter riavere la mia terra. Questo dice. E non c’è niente che desideri di più che poter riavere tutto questo - tutto questo: niente.

Lo dice da quando gli inglesi gliel’hanno portata via: è da allora che scrive sopra ai muri.

Lo dice da quando i cinesi hanno cacciato via gli inglesi: non ha mai smesso di scrivere sui muri. Pure se è analfabeta. Pure se lui dice calligrafia, ma non si legge niente e sono tutti e solamente arzigogoli e svolazzi.

Non credo di poter riavere la mia terra. Solo questo dice. Da anni. E, intanto, scrive. Scrive, senza che nessuno lo capisca.

Perché scrive solo cose senza senso.

Vien da ridere a pensarci-

Vien da piangere a pensarci-

a guardarlo quell’uomo mezzo nudo e mezzo ricoperto di carta di giornale. Quel vecchio idiota è pazzo: quell’imbecille è il re.

Il re di Kowloon. Che si è messo a far la guerra contro a tutto e, soprattutto, contro ai pesci e, per vincere, ci ha avvelenato l’acqua, a tuttiquanti. Quello è il re per cui tutto, qui da noi, poteva essere niente e, invece, tutto muore. Tutto: tranne i pesci.

Non parla e non capisce: non capisce proprio un cazzo Qi-kkhom An. Eppure, me ne fotto.

 

Non lo sapevo. Mica sapevo sempre tutto. È solo che non facemmo in tempo.

Non facemmo in tempo ad arrivare.

Non facemmo in tempo perché la strada era lunga, Qi-kkhom An lento, il re soltanto un vecchio idiota.

Noi non arrivavamo più, la notizia, invece, ci raggiunse: il re, adesso, è morto.

Il re era morto, mentre noi camminavamo lì di sotto.

Il re era morto: ci restavano i suoi scritti, sui cavalcavia e sopra alle pareti.

Il re era morto.

Era morto perché era solo, ma d’altronde essere re era un affare da sbrigare in solitaria.

Il re di Kowloon è morto: oggi, tutti scrivono di lui.

Noi, continuavamo a camminare: del resto, qualche cosa la dovevamo pur continuare a fare: il re era morto.

 

 

 

// La donnapesce ha i guanti rossi. Terzo giorno.

 

Il re era morto. I pesci, invece, no.

Solo all’inizio.

All’inizio, però, sì.

Creparono i delfini, quelli rosa che tanto ci piacevano, che ci mangiavamo pure crudi.

Sempre fame/

sempre tanti.

All’inizio era un villaggio e cosa facessero i pescatori con i pesci non interessava proprio mai a nessuno.

Un pescatore del villaggio ci provò a salvarlo un pesce. Se lo fece infilare nella schiena, un sistema inspiegabile per cui i polmoni sopperissero alle branchie. La testa del pesce tutta dentro, nella pancia, la coda fuori, sbilanciata e penzolante.

Crepò il pescatore: un bel prodotto da fare imbalsamato, invece, poi, non lo si trovò più. Se lo mangiarono i pesci, così, dicono quegli altri.

Se se lo siano mangiato i pesci, chi può dirlo.

Eppure, fu dal villaggio che arrivò. Fu da laggiù che arrivò una donna pesce.

La donnapesce che costrinse il re a scrivere ancora e sempre più veloce sopra i muri dei palazzi. Pensavamo che scrivesse perché era il re di Kowloon e tutti i re lo erano, calligrafi. Invece, il re scriveva e ci salvava: scriveva e combatteva contro un mostro con i guanti.

La donnapesce ha i guanti rossi.

I guanti rossi: per non far vedere che le mani non le ha.

Prima di lei, dei guanti, però, è la fila che si vede.

Qui, tutti abituati a stare in fila: il tempo o la fame non ci sono mai mancati. Ma non è per questo che si va da lei, non è per questo che ci andiamo.

Ci si mette in fila, tutti i giorni.

Ci mettiamo in fila per comprarci delle squame. Per provarci, per davvero, a diventare un poco meno uomini, un poco più dei pesci. Si sa: la donnapesce è l’unica che sopravvive all’acqua avvelenata.

Quella è la razza che resiste, eppure: chi può dirlo? Lei è a vendere che tiene, non a salvarci tuttiquanti. Tanto, qui, tutti preferiscono le squame.

E non essendo più soltanto uomini,

non possono vivere nei tunnel.

Essendo ancora un poco uomini,

non possono vivere per le strade.

Essendo ormai un poco pure pesci,

è l’acqua avvelenata che gli serve.

Non essendo ancora proprio pesci,

andarsene non è qualcosa a cui possano pensare.

Così, vivono nell’acqua intossicata, dentro al porto: dove non andranno a divorarli topi e scarafaggi. Nel porto: dove gli uomini non vanno. Vivono nel porto, sperando di essere abbastanza, pregando una lingua nuova e tuttalloro che gliele ficchi benebene nella pelle, sotto unghie, dentro corpi disossati, quelle squame così care.

Però, non lo sappiamo.

Non lo sappiamo se funzionano le squame: i disperati non vivono abbastanza.

E non è per il veleno.

È che siamo tanti, Qi-kkhom An. Tanti: sempre stati.

All’inizio, troppi pesci sono morti e la donnapesce è mezza pesce: se ci pensi bene, un momentino: non li può mica uccidere tutti- tuttiquanti. Quella vendevendevende: non ne avrebbe neanche il tempo.

E la fila è sempre lunga, i soldi sempre tanti.

La speranza costa cara/

cara/

cara/

e ammazzare costa poco.

La donnapesce lo sa dove prendere le squame, le migliori, le più belle: le ha vendute lei.

Così, se le va a prendere, di notte. Di notte strappa e strappa: il giorno dopo, le rivende quelle squame.

È un lavoro lungo pure quello: sempre meglio che pescare.

Ammazzare i morti, cosa importa?

È dei vivi che bisogna preoccuparsi.

 







 

// Salvami, salvami, grande sovrano. Quarto giorno.

 

Sta male Qi-kkhom An. Sta male e non ci pensa.

Pensa come sempre: sto male, non è niente.

Sta male Qi-kkhom An: non è niente e invece sì. Qi-kkhom An è intossicato: sono stato io.

L’acqua, qui, è tutta avvelenata.

A viverci dentro non fai una bella fine. 

Del resto, per raccontare bisogna prima starci dentro: la verità è un qualcosa che ti sconcia: finisce che mica ti pulisci e, da sporco, non sempre sopravvivi. Per saperlo dove le prende quelle squame la donnapesce - avvocata nostra, nostra unica regina - bisogna starci dentro all’acqua, dentro al porto.

E l’acqua, qui, è tutta avvelenata.

Tutto un passo falso, perché pensavo di salvarlo. Se è vivo, Qi-kkhom An, è solo grazie a me. Se muore come un uomo, Qi-kkhom An, pure, è grazie a me.

È che io non lo sapevo.

Non posso sapere tuttoquanto.

Io non lo sapevo che si sarebbe dato fuoco quel coglione. Che il re sarebbe morto proprio mentre noi camminavamo, mentre passava per di qua il nostro sventurato, che chiamavamo Qi-kkhom An.

Mi guarda e non capisce: non capisce proprio un cazzo.

Ormai, non serve che gli spieghi, che perda ancora il poco tempo che mi resta a pensarci a quell’inchiostro. Non era per niente tutta quella vergogna di calligrafia sgrammaticata, rotta e fracassata: era per un regno. Un regno frantumato come ossa che, però, si possono salvare. L’inchiostro per salvarci, senza badarci alla vergogna di essere re, sì, ma analfabeta. Tutti i muri sporchi ed imbrattati: smisurato organismo che ci serviva a respirare.

Io non lo sapevo, del resto non posso sapere sempre tutto. Del resto, nemmeno uno tra di noi aveva capito: tutti a ridere del re, tutti in fila a comprarsi morte a rate, però catarifrangente.

Guardo Qi-kkhom An e penso sia un peccato. Eppure, si vedeva: non ce l’avrebbe fatta.

 

Salvami, ti prego.

Le stesse le parole che, forse, dicemmo tuttiquanti.

Salvami: così spende il fiato che gli resta; così, dice Qi-kkhom An.

Ti prego, fammi diventare un uomopesce.

Ma lo sa che fine fanno.

Lo guardo Qi-kkhom An, ci vedo ancora dentro che galleggia una speranza: è quella che ti fotte, Qi-kkhom An. Ma non glielo dico che si sopravvive meglio senza: la speranza deconcentra.

 

 

 

// E venne l’acqua che spense il fuoco. Quinto giorno.

 

Poi, venne il tifone.

Sempre così: dove si pensa di esser salvi, è lì che, poi, si muore.

Noi camminavamo e pensavamo - senza meraviglia - a Qi-kkhom An, alla sua vita a repentaglio, quando ci stupì l’arrivo del tifone: uno sbarbaglio.

La pioggia sciolse quel che ci rimaneva di quello che fu il re che scriveva sopra ai muri.

I caratteri spaccati, di un liquido abrasivo, luccicavano scuri: un negativo.

Venne l’acqua ad esplodere l’antidoto, tuttoquanto, dentro all’aria. Ma troppo, di qualsiasi cosa, invece di salvare, poi, ti uccide.

La donnapesce morì coi guanti rossi addosso: non era l’acqua, non era quella la condanna, ma l’inchiostro, tutto quell’inchiostro, invece, le fece a pezzi branchie e occhi: moriva coperta d’oro e giada che pareva una madonna.

 

Noi camminavamo, poi, fu un tifone infame.

Adesso, veramente, tante cose stavano finendo: tuttassieme.

 



 

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